Jigger Inn, Saint Andrews, 1848

Comincia a far buio, il fuoco è sempre più evidente, laggiù, verso la club house, proprio davanti al laboratorio di Allan Robertson.

I Robertson sono fra le prime “dinastie golfistiche” degli albori del golf, da più di un secolo sono i produttori delle migliori palline dell’epoca, le featheries, oltre ad eccellentissime mazze.

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Allan Robertson è considerato il primo vero professionista del golf, rimodellò in parte l’Old Course e assieme a Tom Morris, di sana pianta, progettarono e seguirono i lavori di un altro osannato links: Carnoustie.

Imbattibile nel gioco, un anno dopo la sua morte, avvenuta nel 1859 all’età di 44 anni, fu deciso di istituire una gara per decidere chi fosse il “Champion golfer of the year”, quella gara si gioca ancora oggi, è l’Open…

Adesso era là, con il suo aiutante e discepolo, Tom Morris, (che sarà poi soprannominato “il vecchio” quando anche il figlio, Tom Morris il giovane, entrerà giovanissimo e di prepotenza nella scena golfistica…) stanno attizzando il fuoco.

E cosa stanno bruciando con tanta perizia, sembrano palle da golf…. ?!?

La pallina, nel golf, è storicamente l’elemento che ha condizionato e imposto cambiamenti a livello di attrezzatura e design dei campi. E che ne ha decretato successo e diffusione.

La leggenda vuole che la prima pallina fosse un sasso tondeggiante, la “rocky”, presto soppiantata dalla “woody” a causa dei danni che provocava ai bastoni rudimentali dell’epoca. Di quando stiamo parlando? Non si sa, non sono mai state trovate woody e tanto meno rocky, e sebbene le woody si siano utilizzate fino all’inizio del XVII secolo si sa che già dal XV secolo si usavano anche palline di cuoio riempite di lana o di capelli, le “hairy”.

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La tecnica era conosciuta fin dal tempo dei Romani, un passo avanti rispetto alle woody, che non andavano oltre i 75 metri, ma molto rudimentali e approssimative. Avevano permesso comunque di aumentare gli appassionati, tanto che alla fine del XV secolo, nel 1498, fu possibile fare un ordine collettivo di speciali palline fabbricate in Olanda, erano le “featheries”.

Dall’inizio del ‘600 alcuni ballmakers cominciarono a produrre in loco queste palline fino a diventarne veri maestri. Allan Robertson era fra questi.

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Ritagliava un pezzo di pelle di torello o di cavallo secondo un disegno stabilito, che minimizzava le cuciture, all’epoca non c’erano misure standard per le palline, si producevano di grandezze leggermente diverse per variarne il peso, che veniva indicato, in drams (1=3,89gr), sulla pallina.

Si immergeva nell’allume per ammorbidirlo, dopodiché iniziava il certosino lavoro di cucitura, lì stava il valore aggiunto del fabbricante. Queste palline costavano caro, ci si aspettava che fossero ben fatte e durassero….

Lasciava solo un piccolo taglio di un quarto di pollice, da lì passava tutto il guscio quando lo rivoltava per portare le cuciture all’interno per poi riempirlo con piume d’oca o anatra.

Queste piume, quante ne conteneva uno dei cappelli a cilindro in uso all’epoca, venivano bollite per ammorbidirle e pressate all’interno per mezzo di un punteruolo tenuto sotto una spalla. Veniva poi cucita l’apertura e controllata la sfericità, quindi messa ad asciugare.

The feathers harden and the leather swells”

Il finale di questa poesia del XVIII secolo descrive perfettamente cosa succede nell’asciugatura, la cheratina delle piume tende a ritornare nella forma originale, gonfia, la pelle ammorbidita nell’allume invece si restringe. Il risultato: una pallina molto dura ma anche molto comprimibile all’impatto. Con questa pallina si raggiungevano agilmente le 200 yards e il record di distanza è di un certo Samuel Messieux con 360 yards, nel 1836.

Una volta asciugata veniva verniciata con tre strati di vernice al piombo, normalmente bianca ma anche rossa per l’inverno, pesata e firmata.

La vernice al piombo e le polveri fini inalate durante la riempitura delle palline accorciava sensibilmente l’aspettativa di vita, l’agiatezza economica permetteva l’unico lusso disponibile, il whisky, i più famosi ballmakers dell’epoca non superarono la mezz’età…

Mediamente si facevano da 2 a 4 feathery al giorno, Allan e altri come Gourlay potevano arrivare a 60 e più a settimana.

Il mercato era fiorente, nel 1844 il laboratorio di Robertson onorò ordini per 2456 featheries, la crescita era esponenziale considerando gli anni precedenti: 1021 nel 1840 e 1392 nel ’41.

In più, la perizia con cui Allan utilizzava il cleek, una delle poche mazze con la testa in ferro usate all’epoca, aveva dato il via alla diffusione e allo sviluppo di questo tipo di bastoni, che diventeranno i nostri set di ferri odierni. Nel giro di pochi anni le long nose, grazie anche all’avvento delle nuove palline in gutta, se ne andarono definitivamente in pensione, dopo più di quattro secoli di onorata carriera.

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E nelle sempre più diffuse sacche cominciarono a vedersi le hickory clubs, dal nome di ciò che era rimasto in legno, lo shaft.

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Ad Allan la prima gutta fu mostrata da un certo Tom Peters nell’aprile del 1848.

L’avevano provata sia lui che Tom Morris, ma proprio Robertson si rivelò il più scettico, probabilmente con intenzione aveva toppato la palla, l’aveva guardata sprezzante mentre rotolava: “Bah, quella cosa non volerà mai….” ma aveva capito che il suo business principale stava per finire. John Gourlay, il ballmaker di Musselburgh , appena provata si era prodigato per vendere al più presto tutte le scorte di feathery a magazzino e si era dedicato da subito alla nuova palla.

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Robertson aveva provato in un altro modo…. aveva giurato e fatto giurare a Tom che non avrebbero mai giocato con quella palla, poi avevano battuto il circondario per comprare tutte le gutta in arrivo, i suoi clienti dovevano stare all’oscuro….

Sono proprio palline da golf quelle che bruciano…

Le featheries avevano pregi e difetti, il pregio principale era la distanza raggiungibile e, nonostante la sfericità fosse solo approssimata, nei green dell’epoca funzionava a dovere. Per contro erano soggette ad usura, scuciture e tagli, quando pioveva si inzuppavano d’acqua, bisognava averne una scorta sufficiente per finire il giro.

Costavano carissime, almeno 5 volte il prezzo di una gutta, si utilizzava perciò il “forecaddie”, un ragazzo che veniva mandato avanti, nel punto previsto di arrivo della palla, per non perderla, e che, quando la pallina non veniva colpita bene, veniva avvisato di stare all’erta : “Foooore!!!”.

Anche il modulo di gioco ne risentiva, oltre ai match individuali si giocava a coppie in cui ci si alternava giocando la stessa palla… il greensome.

Adesso, mentre osservano la concorrenza andare in fumo, ancora non lo sanno, ma tra un paio d’anni Tom tradirà il giuramento. Il sodalizio si interromperà e Morris si trasferirà a lavorare al nuovo campo di Prestwick.

Lo stesso Robertson si dovrà convertire alla gutta,la feathery nel giro di una decina d’anni sarà soppiantata completamente.

Si è fatto buio, il fuoco sta per spegnersi.

Dalle sue ceneri nascerà il golf moderno.

The nineteenth hole

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The nineteen hole

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E’ l’ 8 Aprile 1935, si è appena concluso il playoff per l’assegnazione della seconda edizione del Masters Tournament, si festeggia…

Whisky e soda alternati a gin, un giro dopo l’altro, il proibizionismo è terminato da un paio d’anni appena… i ricordi e i racconti abbracciano una intera carriera.

Oggi, per primo ( e non sarà il solo primato…) ha conquistato il Grande Slam di carriera.

Dopo di lui ci riusciranno Ben Hogan, Gary Player, Jack Nicklaus e Tiger Woods.

Il suo pensiero torna al giorno prima, sotto di due colpi da Craig Wood, alla 14 studiava il modo di uscire dal rough ed ecco arrivare quel boato dalle tribune della 18: Wood aveva imbucato per il birdie, i colpi erano diventati 3….

Walter Hagen, suo compagno di gioco e storico rivale aveva chiosato: “ Bene, penso sia finita qui…”

Ma non aveva considerato abbastanza la tenacia e l’ ostinazione di quel piccolo gigante del golf: “ Beh, non è detto, si può imbucare da dappertutto…” .

In club house intanto scrivevano già il nome di Craig sull’ assegno da 1500 dollari di premio.

Par alla 14, si va alla 15, par 5, il drive non è male ma ci sono ancora 235 yards alla bandiera, con un ostacolo d’acqua proprio davanti al green. Il suo caddy, Stovepipe, suggerisce un 3 pieno, ma lui non è convinto, osserva il lie della palla. Hagen gli mette fretta, quella sera ha una cena galante…

Ha deciso, il legno 4 viene sfilato dalla sacca.

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Tra lo sparuto gruppo di persone che assistono alla scena c’è nientemeno che il padrone di casa, Bobby Jones, venuto a vedere i suoi due più temibili avversari dell’epoca. E un giovane Byron Nelson, dall’adiacente fairway della 17.

Il colpo è solido, verrà poi definito “the shot heard ‘round the world”, la palla scheggia la sponda lunga dell’ ostacolo, rimbalza sul green e placidamente rotola in buca…. double eagle, Wood è ripreso.

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Le altre tre buche erano stati tutti par, il giorno dopo ci sarebbe stato lo spareggio, 36 buche in quella edizione.

E adesso era finita, aveva vinto con 5 colpi di scarto… Craig secondo come l’ anno prima, nell’edizione inaugurale dell’ evento…

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Quanta strada aveva fatto questo figlio di poveri immigrati siciliani, nato ad Harrison, vicino a New York nel 1902. Il suo nome di battesimo era Eugenio Saraceni, ma l’aveva cambiato appena diventato professionista, a 19 anni, perché non era un nome da golfista….

Gene Sarazen, questo sì era un nome da golfista, ed è con questo che ha fatto un pezzo di storia del golf.

I ricordi vanno indietro, quando, a 10 anni, per aiutare la famiglia, aveva conosciuto il gioco partendo, come tanti altri grandi campioni, dal “caddy yard”.

Il suo primo set completo di mazze, alla vigilia dell’avventura da professionista, adesso si cominciava a fare sul serio….

Il fisico non l’aiutava, superando di poco il metro e sessanta, ma era solido e soprattutto tenace.

Ritorna col pensiero allo Stroke Country Club, al primo U.S. Open vinto a 20 anni, con un 68 finale, primo giocatore a scendere sotto i 70 colpi nell’ ultimo giro della competizione.

E a qualche mese dopo, ad Oakmont, dove conquista il suo primo PGA Championship.

Al secondo, l’anno dopo, a Pelham, vicino a casa, dove aveva battuto nientemeno che Walter Hagen, il grande mattatore del match play, la formula in uso allora, vittorioso nel 1921 ma assente nel ’22 perché impegnato a vincere l’Open Championship in Inghilterra, al Royal St. George…

Un sorriso furbetto precede il ricordo della sua avventura europea, l’anno è il 1932 e Gene è impegnato nel British Open al Prince Golf Club, Sandwich, Kent.

Si era portato dietro questo suo esperimento, ma per la paura che glielo vietassero, nei giri di prova l’aveva tenuto in sacca capovolto . Alla sera se lo portava via, infilato sotto il gabardine. Una volta iniziato il primo giro non glielo avrebbero più potuto vietare per la gara, non lo faranno neanche dopo, per nostra fortuna…

L’idea gli era venuta pochi mesi prima, volando con l’amico del tempo, Howard Hughes, l’eccentrico miliardario americano appassionato di golf e aeroplani.

Aveva osservato il modo in cui l’estrazione degli ipersostentatori modificava il profilo dell’ala.

A casa si era rinchiuso in garage e per mesi aveva saldato flange, aggiunto pesi, limato e piegato fino ad arrivare ad un prototipo funzionante.

Era il tormento di tanti golfisti del tempo, da quando l’ anno prima avevano vietato l’Hagen wedge, l’unico attrezzo all’epoca in grado di far volare la palla fuori dai temibili bunkers…

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Il ferro era concavo e si era convenuto che il contatto tra faccia del bastone e palla non fosse puro.

Prima dell’Hagen wedge (non inventato da Hagen, ma la prima sponsorizzazione tra mazze e golfisti) si usava lo Jigger  che era l’ antenato del pitch, oppure degli accrocchi strani.

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E non che i bunker anni fa fossero meno penalizzanti degli attuali…

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Con quel nuovo attrezzo di sua invenzione e un nuovo tipo di colpo che era diventato possibile, l’explosion, aveva conquistato il British Open e, nello stesso anno, l’ U.S. Open a Fresh Meadows con un 66 finale che è rimasto un record fino al 1960 (battuto da uno strepitoso 65 di Arnold Palmer a Cherry Hills, per rimontare e vincere su Ben Hogan e Jack Nicklaus).

L’anno dopo il terzo PGA a Milwaukee, sopra di 5 con 4 da giocare nel giro finale.

La Wilson, leader dell’ epoca nell’attrezzatura da golf fiuta l’affare, è il ferro che tutti vogliono.

Sarazen è gia sotto contratto, i pitch e i ferri 9 martirizzati nel garage sono loro.

Il wedge viene riprodotto industrialmente, è il prototipo di tutti i sand wedges esistenti: 55 gradi di loft, 11 gradi di bounce, 36 pollici e mezzo di lunghezza.

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Avrebbe fatto la sua fortuna: con i guadagni si comprerà un appezzamento di terra e diventerà poi per tutti “ the Squire”, in italiano: possidente, proprietario terriero.

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Torniamo al 1935, oggi è stato il suo canto del cigno, non vincerà più altri majors ma giocherà il Master per altri 33 anni a seguire.

Nel corso della sua carriera, oltre ai 7 Majors, vincerà 32 gare del PGA Tour, altre gare minori, l’ultima nel 1966 e 2 PGA Senior Championships nel ’54 e ’58.

Sei volte nella selezione della Ryder Cup, dal ’27 al ’37.

Prima del sand wedge si era inventato il “reminder grip” con un peso al termine dello shaft, uno dei primi attrezzi d’allenamento ma ancora prodotto e usato.

Chicca finale, Gene Sarazen è uno dei pionieri e sicuramente il primo golfista di merito ad utilizzare l’interlock grip, da allora adottato da milioni di golfisti.

(Mirrorpix/Newscom) SARAZEN-LS-040716-newscom British Open 1952. Royal Lytham & St Annes Golf Club, Lancashire, 10th July 1952. The 81st Open Championship, was held from 9th to 11th July. Pictured, Gene Sarazen of the USA. (Newscom TagID: mrpphotos335481.jpg) [Photo via Newscom]

Questo grande campione, a 71 anni suonati, invitato a Troon per celebrare il 50esimo anniversario della sua vittoria al British Open, si è permesso di imbucare dal tee al famigerato par 3 della 8 , “The postage stamp”, il francobollo, per le dimensioni ridotte del suo green circondato da bunkers e rough.

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Il giorno dopo, al secondo giro, non è andato oltre il birdie…

Augusta gli rimarrà sempre nel cuore, nel 1955, per onorare la sua impresa, viene costruito il Sarazen Bridge di fianco al green della storica 15, a 77 anni sarà nominato “Honorary Starter” , compito che svolgerà per 20 anni, fino al 1999, quando, solo 5 settimane prima dell’ ultimo viaggio, con un drive di ultimissima generazione, shaft in grafite e tutto il resto, 5 o 6 prove in campo pratica, ci ha lasciato con un piccolo, delizioso draw…

Honorary Starter Gene Sarazen looks on during The 1994 Masters Tournament (Photo by Augusta National/Getty Images)

The 19th hole

Nel gergo golfistico “the nineteen hole”, ovvero la diciannovesima buca, è il posto dove ci si ferma dopo il giro di campo. I più antichi, manco a dirlo, sono in Scozia e sono centenari: il Jigger Inn a St. Andrews si affaccia sulla terribile 17 e nei più di duecento anni di storia è stato testimone dell’evolversi di un passatempo che, dalle poche centinaia di praticanti, perlopiù nelle zone costiere della Scozia, si è allargato fino a diventare lo sport più diffuso al mondo.

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Quello che proveremo a fare qui è raccontare un po’ di storia del golf, dei suoi personaggi più influenti o caratteristici, dell’evolversi dell’attrezzatura e quindi della tecnica, ma anche e soprattutto piccole curiosità, come se fossimo in uno di questi posti, viaggiando nel mondo e nel tempo.

Cominciamo da Musselburgh, cittadina vicino ad Edinburgo, l’anno è il 1826.

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Di che cosa si parla in quello che oggi è considerato il più antico pub britannico, il “Mrs Forman’s” , adiacente a questo campo che vanta già almeno 250 anni di storia all’epoca e che ha visto nientemeno che  Mary, la regina di Scozia, caracollare su quei links nel lontano 1567?

Di un pezzo di tubo da fogna.

Di come è stato più facile fare una buca fatta bene, piuttosto che tribolare con la cazzuola…

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Tonda perfetta, i bordi precisi, replicabile uguale in tutti i greens, è nato il primo “hole cutter”.

Incidentalmente il diametro esterno del tubo è di quattro pollici e un quarto, 10,8 centimetri.

L’ idea piace, altri campi adottano il sistema, trovare un pezzo di tubo è semplice, la misura è lo standard da 4 pollici (interni). Nel giro di tre anni si perfeziona l’ idea fino a creare il primo attrezzo industriale.

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Potrebbero credere che neanche due secoli dopo quella è la misura di quasi seicentomila buche nel mondo?

Nonostante personaggi del calibro di Ben Hogan e Gene Sarazen abbiano lungamente e vanamente spinto per un allargamento…  auspicabile per i migliori colpitori di palla del tempo ma così incerti sui greens…

La prossima volta che sbordate sapete con chi prendervela: non potevano usare tubi più grossi ‘sti tirchi di scozzesi???

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